Santa Maria del Monte, l’alleanza di monaci e pastori

santa maria del monte monaci pastori

Nel versante meridionale del Gran Sasso, a 1600 metri di altitudine, si scorgono ancora oggi le rovine di Santa Maria del Monte. Ricordano un tempo in cui monaci e pastori vivevano dello stesso pane, in cui preghiera e lavoro erano attività inseparabili.

È una storia che inizia tra il XII e il XIII secolo, quando le abbazie cistercensi fecero l’ingresso nel sistema economico della transumanza, tra gli Abruzzi e le Puglie. Le rovine sono ciò che rimane di una grangia, un vero e proprio insediamento produttivo, frutto del pioneristico lavoro di bonifica e di dissodamento dell’ordine monacale cistercense. Cuore pulsante dell’economia locale nel Medioevo, crocevia delle greggi transumanti che dalle praterie di Campo Imperatore approdavano al Tavoliere, la grangia era un luogo ispirato da un estremo rigore morale e religioso. Santa Maria del Monte dipendeva dall’abbazia di Santo Spirito d’Ocre, a sua volta dipendente dal complesso di Santa Maria di Casanova[1]. Chi vi lavorava (monaci, conversi e laici) si occupava dell’alpeggio degli armenti e dello stoccaggio di lana, formaggi e carne.

La struttura del monastero

santa maria del monte monaci pastori
Ricostruzione ipotetica della pianta dell’edificio di Gabay Noémek* nella pubblicazione“Grangia cistercense Santa Maria del Monte a Campo Imperatore (L’Aquila)

La struttura, costruita con pietra calcarea locale, aveva un’area di circa duemila metri quadri ed era divisa in due parti: una riservata ai monaci, con una chiesa, un chiostro e diversi ambienti religiosi, e un’altra parte riservata ai conversi, con cortile, servizi e magazzini. Le suggestive rovine ricalcano ancora il perimetro dei mandroni, stazzi permanenti chiusi da muri a secco con una capienza stimata di ben 9700 capi di bestiame.

Alla fine dell’estate le greggi salite dalle valli abbandonavano i pascoli in alta quota e raggiungevano il Tratturo Magno in direzione del Tavoliere, probabilmente attraverso gli insediamenti fortificati di Santo Stefano e Calascio. I monaci, dal canto loro, scendevano di quota a causa delle rigidità invernali e si sistemavano in una valle riparata dai venti e coltivata a lenticchie ed orzo, in ambienti ancora oggi visibili: le condole. Si tratta di strutture a due piani in pietra, parzialmente interrate per conservare il calore, con muratura dello spessore di un metro e munite di volte a botte, oggi nel territorio di Santo Stefano di Sessanio.

santa maria del monte monaci pastori
Esempio di condola

Le Locce

Santa Maria del Monte era dunque solo una delle basi di appoggio del sistema agro-pastorale d’altura. Scendendo ancora di quota, in territorio di Barisciano, si estende una suggestiva depressione carsica, intensamente coltivata. Parliamo del Piano delle Locce, che prende il nome dalle caratteristiche grotte artificiali che punteggiano i pendii, utilizzate come stazzi coperti per il bestiame, come rifugi provvisori di contadini e pastori o come magazzini di attrezzi agricoli e provviste. Costruite scavando nella roccia, ai piccoli ingressi muniti di architrave e rinforzati con muri a secco seguono uno stretto corridoio e un ampio ambiente, che si spinge in profondità. Un foro sulla volta permette all’aria di circolare.

Il pianoro ospitava un sistema pastorale abbastanza efficiente: agli scambi con la grangia si aggiungeva la vicinanza con piccoli villaggi come San Basilio e Sant’Angelo, che sarebbero andati a formare successivamente, con il loro spopolamento, il centro attuale di Barisciano[2]. Alcuni studiosi ipotizzano che questi piccoli centri siano nati proprio per sfruttare le risorse agricole del Piano, interagendo con i traffici pastorali di Santa Maria del Monte ed estinguendosi con la scomparsa della grangia, la cui ultima notizia risale al 1568.

santa maria del monte monaci pastori
Versante montuoso costellato dalle tipiche Locce
foto di Alessandro Chiappanuvoli – Virtù quotidiane: https://www.virtuquotidiane.it/cronaca/le-locce-e-le-condole-gli-antichi-tesori-nascosti-nelle-terre-della-baronia.html

Tra passato e presente

La storia che emerge fin qui è quella di una montagna vivace, ricca di insediamenti e fulcro di un’intera economia. Ne sono testimoni le rovine dei monasteri che ancora oggi svettano in altitudine, le strutture in pietra che costellano le valli e i pendii ed i rifugi, alcuni abbandonati a sé stessi, altri trasformati in ricovero accogliente per turisti ed appassionati di montagna. Ma di questi ultimi parleremo nei prossimi articoli.

Diego Renzi

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

* Gabay N., “Grangia cistercense Santa Maria del Monte a Campo Imperatore (L’Aquila): Rilievo e studi di un insediamento medievale della transumanza in Italia Centrale”, Chronique des activités archéologiques de l’École française de Rome, 17 ottobre 2018.

Link: https://journals.openedition.org/cefr/2058?lang=it.

Micati E., “Pastorizia e agricoltura di sopravvivenza alle alte quote. Tipologie insediative”, Mélanges de l’École française de Rome-Antiquité, 2016, 13 giugno 2016 

Link: http://journals.openedition.org/mefra/3488


[1] Sappiamo dai documenti che nel 1222 l’imperatore Federico II pose l’abbazia di Casanova e tutti i suoi possedimenti sotto protezione imperiale. Sono pervenute a noi anche storie di conflitti, come quando i monaci di Casanova disboscarono la selva vicina alla grotta in cui era vissuto Pietro del Morrone, il futuro papa Celestino V, entrando in contrasto con l’ordine da lui fondato. (M.R. Berardi, I monti d’oro, identità urbana e conflitti territoriali nella storia dell’Aquila medievale, Liguori Editore, op. cit., pp. 93-94).

[2] Cfr. R. Giannangeli, Terra di Barisciano, Japadre Editore, L’Aquila 1974.

La crisi della pastorizia, dall’Impero romano ad oggi

Pastorizia
Statuetta del Buon Pastore, Musei Vaticani.

Pascolo e bosco: antichi sinonimi

La concezione del termine pascolo ai tempi degli antichi greci e romani era ben differente dall’attuale. Era infatti sinonimo di bosco (dal greco equisono βόσκω). Con “pascolo” si intendeva un ceduo[1], un tipo di bosco che non era né selva[2] (silva) e nemmeno foresta[3]. Anche le parole greche nemos, ed alsos, così come le latine nemus e saltus si riferiscono sia al bosco che al pascolo. Ancora oggi, sebbene poco usata come accezione, per “salto”, dalla derivazione latina, si intende un monte selvoso. I custodi dei boschi e dei pascoli venivano chiamati saltuarii in Italia e alcosomi in Grecia. 

L’uso di queste parole ci fa intendere un rapporto inseparabile tra bosco e pascolo, che era tale soprattutto in termini economici. Fu solo la trasformazione del territorio a scinderne per sempre il significato. Con il passare del tempo, l’esercizio del pascolo provocò un impoverimento dei boschi che lasciarono spazio a un manto erboso sempre più rigoglioso. 

L’Abruzzo e in particolar modo Campo Imperatore, giocò un ruolo fondamentale in questo via vai di pastori, generando la propria ricchezza proprio dai pascoli montani. Già dai tempi dei romani, l’aspetto dell’altopiano cominciò a modificarsi, fino ad arrivare alla formazione delle caratteristiche praterie secondarie che si possono ammirare oggi.

L’abuso dei pascoli

I proprietari terrieri vedevano nella pastorizia una maggiore fonte di reddito rispetto alla vendita di legname, che importava, maggiori costi di gestione e, soprattutto in terreni scadenti, ricavi più bassi. Se prima dell’espansione dell’impero romano trovavamo un delicato equilibrio fra l’agricoltura, la pastorizia e la selvicoltura, la sete di conquista decretò un inevitabile aumento della coltura pascoliva; e a pagarne il prezzo più alto fu il bosco. La trasformzione della figura dell’agricoltore e del pastore seguì di pari passo la deforestazione di molti paesaggi italici. Se anticamente i due mestieri erano prerogativa di liberi uomini, la professione veniva svolta sempre di più da schiavi, servi e prigionieri di guerra

Inutile fu la legge che indisse Giulio Cesare per far in modo che almeno un terzo dei pastori dovessero essere uomini liberi: i patrizi romani disponevano di migliaia di schiavi che, come scrisse Seneca, erano più numerosi dei barbari, che già minacciavano le frontiere della penisola italica.  C’erano così tante mandrie di bestiame che quasi non bastavano le terre per poterle pascolare. 

L’abuso del pascolo fu quindi la causa del deturpamento delle bellezze naturali del Meridione, soprattutto in Lazio e in Sicilia. I disordinati disboscamenti devastarono i monti d’Italia: l’isterilimento della terra ed il dissesto idrogeologico che seguirono, portarono a un’emigrazione di massa verso le città. Fu la prima crisi che subì la nobile arte della pastorizia, che aveva permesso, insieme all’agricoltura ed alla selvicoltura, lo sviluppo di fiorenti civiltà. 

La crisi della società pastorale

In conclusione, possiamo dire che nel corso dei secoli la figura del pastore è cambiata moltissimo. Abbiamo visto come il mutamento nell’uso del suolo durante l’Impero romano causò dei danni che sono ancora evidenti nel paesaggio del Bel Paese. All’equilibrio che si era stabilito fra l’arte pastorale, l’agricoltura e la selvicoltura si stostituì il disordine colturale, l’instabilità economica, sociale ed il dissesto idrogeologico. L’ingordigia e l’avidità di alcuni proprietari terrieri fu la causa della scomparsa di una realtà culturale e colturale che mai tornò al suo antico splendore. Una realtà che oltre alla produzione di beni materiali, dall’alimentazione, all’artigianato, era anche la culla di arte e conoscenza.

Certo, l’aumento della produzione causò un drastico cambio nelle abitudini dei pastori, ma questo non frenò la diffusione culturale in questo ambiente. Per questo abbiamo testimonianze anche abbastanza recenti di artisti e poeti legati al mondo della pastorizia. Non dimentichiamo che in fondo ancora oggi, chi affronta questo duro mestiere con passione può apprezzare quel senso di libertà che lo lega con i propri antenati. Di sicuro il rapporto con il resto della società è sempre più influente ma quando ti ritrovi con il gregge, tutto cambia, tutto viene lasciato da parte.

Quella dell’impero romano fu solo la prima crisi che ha dovuto affrontare la pastorizia. Con il tempo, l’affluenza verso le città, il progresso industriale, fino ad arrivare al frenetico stile di vita odierno, hanno causato diverse crisi, molto più devastanti. Lo possiamo constatare anche dal fatto che oggigiorno fare il pastore non è un’attività redditizia come lo era fino al secolo scorso.

La pastorizia oggi

La svalutazione della lana e del latte, la mala gestione dei pascoli, la corruzione e il mercato globalizzato sono solo alcuni fattori che stanno distruggendo le piccole realtà pastorali. Nel settore alimentare, abbiamo sacrificato la qualità per la quantità. Se già Roma, nel V secolo d.C. aveva già il continuo bisogno di intervenire sull’ambiente per soddisfare la propria domanda di produzione alimentare, con la politica capitalista attuale la situazione è ancora peggiore. La produzione non è relazionata al consumo: l’allevamento e l’agricoltura intensiva generano più risorse di quelle che realmente si necessitano. Inevitabilmente, si interviene senza criterio sull’ambiente.

La selvicoltura oggi

In Italia, la Scienza e l’Arte forestale un tempo venivano insegnate ai funzionari della Forestale nell’Istituo forestale di Firenze, poi Istituto Superiore, ed oggi nelle Università di scienze forestali ai professionisti del settore[4]. L’arte di coltivare i boschi (selvicoltura), a nostro avviso, non è percepita da buona parte della collettività nel modo corretto e di conseguenza non riceve la considerazione che merita. Manca fra le genti d’Italia quella che Luzzatti definiva coscienza forestale, e manca da parte delle istituzioni pubbliche una propaganda concreta, di ordine tecnico-economico, volta a dimostrare, con esempi reali, come si gestiscono, ovvero come si coltivano i boschi, nei riguardi tecnici, ma anche sotto l’aspetto economico, nel pieno rispetto di inderogabili leggi di ordine fisico e bioecologico alle quali è soggetto ogni ecosistema forestale;[5] e che ogni tecnico forestale, degno di questo nome, deve conoscere per poter garantire la perpetuazione della fitocenosi. Bisogna instaurare un dialogo costruttivo con i cittadini e con le molteplici associazioni ambientaliste che si muovono, con spirito sincero e spesso in buona fede, per la salvaguardia dell’ambiente, e che troppo spesso confondono l’assestamento forestale e l’attività selvicolturale con “disboscamento” e “distruzione”. Di concerto è necessario un controllo efficace svolto da un organo di polizia con dipendenti qualificati ed adeguatamente preparati nella poliedrica Scienza forestale, per prevenire, più che reprimere, illeciti e cattiva gestione del territorio forestale e montano.

Il rapporto con l’ambiente sembra interessare sempre meno a una società che ha distrutto i propri valori. Ha dimenticato che la sua esistenza ha origine da fiorenti civiltà che attribuivano alla natura, alle arti, alla musica, all’agricoltura, alla selvicoltura ed al pascolo, un valore sacro. 

Paradossalmente, in un mondo dove la cultura e la tradizione vengono messe da parte, l’unica testimonianza di quel senso di libertà che aleggiava intorno alla figura del pastore la ritroviamo degli antichi poemi che essi stessi ci hanno lasciato. Un mondo, il loro, che racchiude una dignità storica indescrivibile, macchiata prima dal sangue sulle catene degli schiavi romani, poi dalla svalutazione odierna di uno dei mestieri più antichi al mondo. 


[1] Sfruttando la propagazione vegetativa di alcune specie legnose, si effettuano dei tagli periodici, con conseguente emissione di getti, detti polloni, dalle porzioni della pianta madre rimaste sul terreno; questi polloni formano il bosco, detto ceduo (dal latino caedo = taglio). Il ceduo si origina per riproduzione agamica e non gamica (sessuale). Il ceduo è una delle due fondamentali forme di governo dei boschi. (In parte citato da PAVARI A., 1943. Governo e trattamento dei boschi, Tipografia Ramo Editoriale degli Agricoltori S. A., Roma.)
[2] Termine generico che in antichità veniva utilizzato per indicare un bosco, senza fornire informazioni riguardo la forma di governo ed il trattamento selvicolturale.
[3] Oggi, la parola foresta ha il significato che un tempo rivestiva il vocabolo “selva”, invece, all’epoca, foresta identificava un bosco governato a fustaia, ovvero quel particolare regime selvicolturale in cui si lasciano crescere gli alberi secondo le legge “naturali” dello sviluppo, sino ad un’età, detta di maturità, in modo che essi assumono le dimensioni ed i caratteri di piante di alto fusto. Di regola le fustaie si originano e si riproducono per seme. (In parte citato da PAVARI A., 1943. Governo e trattamento dei boschi, Tipografia Ramo Editoriale degli Agricoltori S. A., Roma.)
[4] Per professionisti forestali intendiamo i laureati in Scienze forestali che esercitano una professione regolamentata con il titolo di “Dottore forestale” ed appartengono all’Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali (L. 3/1976 e ss. mm. e ii.). Fra le mansioni svolte da suddetti professionisti, ci sono: l’assestamento forestale (pianificazione e gestione delle foreste), la progettazione di interventi selvicolturali (utilizzazioni forestali), di rimboschimenti, di sistemazioni idraulico-forestali, di bioingegneria forestale (Ingegneria Naturalistica), ecc.
Fino al 1981 l’assestamento forestale, la progettazione forestale (interventi selvicolturali, rimboschimenti, sistemazioni idraulico-forestal, e in generale opere di difesa contro il dissesto idrogeologico), il vivaismo forestale e via dicendo erano compiti prevalenti o esclusivi, prima del Corpo Reale delle Foreste, poi della Milizia Nazionale Forestale; e dal 1948, anno delllo scioglimento della Milizia, del Corpo Forestale dello Stato, che ha mantenuto il suo ordinamento di “corpo tenico con funzioni di polizia” fino alle modifiche al Codice di Procedura Penale e alla promulgazione della L. 121/1981. Questo strumento legislativo inserì il Corpo fra le cinque “Forze di Polizia dello Stato”, riducendo gli storici compiti di gestione e di difesa del territorio del CFS, in favore di mansioni di vigilanza e repressione delle violazioni a danno dell’ambiente. La trasformazione di questo corpo con funzioni prevalentemente tecniche, in forza dell’ordine è stata ribadita definitivamente nel 2004, con la L. 36/2004.
[5] In parte citato da PATRONE G., 1970. Economia forestale. Tipografia Coppini, Firenze (FI), pag. 427

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

https://www.cansiglio.it/storia/storia-forestale-cansiglio/387-adolfo-di-berenger-forestale-in-cansiglio-e-fondatore-della-selvicoltura-italiana.html

VOLPINI C., 1966. Rivista di Storia dell’Agricoltura, a. VI, n.2, giugno 1966.

GABRIELLI A., 2005. I Maestri, Su le orme della cultura forestale. Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze.

DI BÈRENGER A., 1867. Studii di archeologia forestale. Dell’antica storia e giurisprudenza forestale in Italia” (cap. IX, pp. 758-769), Treviso e Venezia.


Francesco Giuliani, il pastore poeta di Campo Imperatore

“La sera quello voleva legge, e le nonne gli strillavano, perché consumava la lume!” [1]

Lo sguardo di Francesco Giuliani racchiude una vita di cultura, giustizia e amore per la propria terra. Chicche ru cuaprare, cosi lo chiamavano i suoi compaesani, nasce il 5 agosto del 1890 a Castel del Monte; dedica la propria esistenza al gregge: 50 anni di viaggi fra il Tavoliere delle Puglie e i pascoli estivi dell’altopiano di Campo Imperatore. Una vita illuminata dalle sue grandi passioni: la lettura, la poesia e la scultura del legno. 

giuliani pastore campo imperatore
Immagine da Camminare nella storia: https://blogcamminarenellastoria.wordpress.com/2014/01/22/la-transumanza-del-pastore-poeta-francesco-giuliani/

Tra le selve e sui monti anch’io pastore
Con il gregge ed a questo affezionato
Nel bel piano di Campo Imperatore
Quante stagioni io vissi beato;
E leggevo con cura e con amore
Dante, Petrarca e l’Ariosto lodato,
Questi sempre compagni e cari amici
Per cui viver potei giorni felici.

Il disprezzo per la guerra

Se Teocrito narrava di un mondo paradisiaco, abitato da pastori poeti che esprimevano le loro passioni nei loro canti, Giuliani racconta la cruda realtà pastorale di un Abruzzo segnato delle due grandi guerre del ‘900. L’antropologa Annabella Rossi, che dedicò numerosi studi al folklore del centro-sud Italia, fu la prima a raccogliere le testimonianze di Giuliani, che le lasciò i suoi preziosi quaderni nel 1960. In seguito, gli studi della ricercatrice furono fondamentali per la scrittura di vari libri sulla vita del pastore. Nei suoi scritti, esprime sempre un forte disprezzo per la guerra, denunciando le oppressioni e le ingiustizie, incitando il lettore a diffidare di colui che promette “la pace e l’abbondanza”. 

Liberatevi un po’ dall’ignoranza,
Cercate di sapere e d’imparare
Quanto ci vuole a non farsi ingannare.

Conobbe in prima persona le atrocità del primo conflitto mondiale, riportando nei suoi quaderni la testimonianza della vita in trincea. La sua anima letteraria si evince anche nel racconto dei saccheggi dei suoi compagni, in cui ammette di aver avuto il “coraggio di prendermi un libro”. 

“In mezzo a tutto quel rimestamento di roba vidi due libri: le Rime del Petrarca, e la Leda senza cigno di Gabriele D’Annunzio; li raccolsi con premura e li misi nel tascapane [2]”.

Non c’è da sorprendersi se la sua biblioteca personale contasse 400 libri. Un portale di sapienza che proietta il pastore verso una consapevolezza interiore differente, che lo aiuta a superare le tristi memorie della guerra e le difficoltà del proprio mestiere. Solo, nell’immensità dei pascoli di Campo Imperatore o ammirando il mare della Puglia, dà sfogo alla sua vena poetica, lasciandoci un patrimonio culturale dal valore inestimabile. 

Lo scultore

“Quando facevo il pastore, quando il tempo lo permetteva, e quando le pecore stavano assise, lavoravo il legno. Lo lavoravo così, senza avere gli arnesi per poterlo fare per bene. Mi piaceva anche leggere quando le pecore stavano assise. Se invece di fare il pastore avessi fatto un altro mestiere, non mi sarei mai accorto di essere capace a lavorare la pietra e il legno[3]”

Dopo una breve esperienza lavorando in una fabbrica in Francia, torna nella sua amata terra d’Abruzzo per continuare a svolgere l’attività pastorale. Una volta in patria, non si separa più dal proprio bestiame fino a quando, passati i 60 anni, decide di andare in pensione per dedicarsi interamente alla sua altra passione: l’incisione e la scultura del legno

giuliani pastore campo imperatore
Immagine da Semi sotto la Pietra: https://semisottolapietra.wordpress.com/2019/07/15/esser-non-voglio-un-pastoraccio-incolto-francesco-giuliani-lultimo-poeta-pastore/

“Non c’era lavoro nei campi né con le pecore, e io lavoravo il legno tutto il giorno, ma non vendevo niente o quasi. In famiglia mi gridavano che non dovevo fare quegli oggetti perché tanto non si vendevano, ma io li facevo lo stesso perché avevo sempre in testa che un giorno si sarebbero venduti. Qualche oggetto lo vendevo a chi passava davanti casa e mi vedeva lavorare; i bambini si fermavano incuriositi e le mamme compravano qualcosa per una miseria. [4]”

Sebbene in principio la gente del borgo non apprezzasse le opere di Giuliani, poi negli ultimi anni esse furono oggetto di attenzione di varie mostre italiane. Sua nipote, nel documentario dedicato al pastore, conferma che gli inviti di partecipazione alle mostre continuarono ad essere recapitati, anche dopo la morte del pastore.
Iniziò a prestare maggiore attenzione nel lasciare le sue creazioni, dopo essersi reso conto che in una mostra a Firenze fu venduta una sua opera senza che egli ricevesse una lira. Oltre a sedie, forchettoni e altri oggetti di vita quotidiana, realizzava incisioni figurative e scolpiva busti di personaggi illustri. 

L’eredità culturale

Dai quaderni di Giuliani, raccolti da Maurizio Gentile nel libro Se ascoltar vi piace: dai quaderni di Francesco Giuliani, si legge dell’antica quotidianità del borgo di Castel del Monte. Una di queste è legata alla credenza che avevano gli abitanti nelle streghe. Se un bambino veniva colpito da una malattia sconosciuta, si pensava fosse opera delle streghe. Era usanza fare il giro del paese di notte e “passare sotto sette sporti”. 

“Il giro si faceva verso la mezzanotte quando le vie erano deserte, e la comare del battesimo doveva portare in braccio la creatura seguita da altre donne tutte in silenzio e, se pure si incontrava qualcuno non si doveva fare una parola, con tutto questo credevano di allontanare le streghe e far guarire la creatura[5]”.    

giuliani pastore campo imperatore
Immagine da Virtù Quotidiane: https://www.virtuquotidiane.it/cronaca/castel-del-monte-torna-a-vestirsi-di-magia-con-la-notte-delle-streghe.html

Le parole di Giuliani oggi sono tenute vive grazie all’evento che ogni estate si celebra nel borgo: la “Notte delle streghe”. Si tratta di una rappresentazione teatrale itinerante: gli spettatori sono accompagnati fra i vicoli del paese e assistono allo svolgersi della storia, rigorosamente in dialetto locale. Altro evento nato grazie alle parole del poeta è anche “Òme se nasce, bregànte se mòre”. Giuliani infatti, racconta dei briganti e delle loro gesta nel territorio abruzzese. Grande merito per la rievocazione storica degli scritti del poeta va a Marco Basile, che oltre ad aver scritto sulla storia del pastore e di Castel del Monte, cura anche la sceneggiatura degli spettacoli teatrali. 

Il fascino della figura di Giuliani ha ispirato opere musicali, teatrali e documentari. Una figura che già nel ‘900 sembrava un’eccezione e di cui, soprattutto oggi, il mondo pastorale sente la mancanza. Le tante difficoltà del mestiere, già forti nei secoli passati, sono accentuate dai ritmi di una società frenetica che ignora le antiche tradizioni. Anche se l’Abruzzo mantiene viva una piccola parte di quello che fu la pastorizia, storie come quella di Francesco Giuliani sembrano solo un ricordo perso nel tempo. 

[1]  Testimonianza presente nel documentario “Se vi piace ascoltare, Francesco Giuliani, pastore” di Isabella Micati e Alessio Tessitore, presentato al TrentoFilmfestival

Bibliografia e sitografia

Giuliani, F., 1992, Se ascoltar vi piace: dai quaderni di Francesco Giuliani, (a cura di Maurizio Gentile), Lindau editore, Torino

Basile, M., 2008, Terra mia: uomini e vicende tra storia e memoria, San Gabriele (TE): Editoriale ECO

https://www.nazioneindiana.com/2011/06/20/se-vi-piace-ascoltar-cari-signori/ [2]

pdf Centro Sociale n.39-40, 1961 – Artigianato e arte popolare:  [3-4] http://www.byterfly.eu/islandora/object/librib:28704/datastream/PDF/content/librib_28704.pdf

http://www.lanottedellestreghe.org/ [5]

https://semisottolapietra.wordpress.com/2019/07/15/esser-non-voglio-un-pastoraccio-incolto-francesco-giuliani-lultimo-poeta-pastore/

http://camminareleggendo.blogspot.com/2011/06/francesco-giuliani-storia-antica-del.html

http://www.vincenzobattista.it/quellupupa-incisa-nel-faggio-da-francesco-giuliani-gran-sasso-ditalia/

Video: 

https://www.youtube.com/watch?v=hz-K_7rY4Ac&list=PLH-Qha95qsXnhKCC2A1Dg2tT0juvQZgb3&index=11

https://www.youtube.com/watch?v=u02zmHwVHHA

Pastori poeti, un’armonia perduta

pastori poeti armonia perduta
Ivan Aivazovsky, gregge di pecore con i pastori al tramonto

La vita del pastore è da sempre dura, aspra, irta di ostacoli, immersa in una natura poco clemente. Nonostante ciò, sin dall’età classica, è stata avvolta da poeti e letterati in un’aura mitica, tipica di un mondo a cui guardare con ammirazione e nostalgia. I versi di Teocrito di Siracusa (310-260 a.C.), autore degli Idilli, ci hanno consegnato l’immagine del pastore poeta, cantore delle sofferenze e delle gioie d’amore, immerso in una natura docile e benigna.

Con l’avvento di Alessandro il Macedone e dopo la spartizione del suo impero ad opera dei diadochi, il cittadino greco della pòlis diviene suddito. Conclusi i ferventi anni della democrazia ateniese e dei governi cittadini, le classi colte si rifugiano nelle corti regali e abitano nuove, grandi metropoli, come Alessandria d’Egitto e Pergamo: città caotiche, rumorose, impersonali [1]. La letteratura abbandona così i tumulti della politica, lascia idealmente l’agorà e cerca realizzazione nel privato, presso intime cerchie di raffinati cultori delle arti. È in questo contesto che scaturisce la nostalgia per un’armonia perduta, in cui la natura sussurri ancora alle orecchie degli uomini.

Teocrito e le competizioni dei pastori poeti

Teocrito, inventore della poesia bucolica, ritrova questo altrove nella vita del pastore. Capaci di canto e di poesia, i pastori teocritei si sfidano in gare di versi (canti amebei), che si concludono con reciproci scambi di doni. Figura leggendaria è il mandriano Dafni, morto per amore. La triste vicenda è narrata dal pastore Tirsi al compagno capraio in cambio di una coppa istoriata:

Incominciate, predilette Muse,
incominciate il canto pastorale.
Questo è Tirsi dell’Etna e soave è il suono
della voce di Tirsi. In quale luogo,
dove eravate, Ninfe, mentre Dafni
si consumava? Nelle belle valli
del Penèo e del Pindo? Né il gran corso
del fiume Anàpo abitavate o
l’acqua sacra dell’Aci o il vertice dell’Etna.
Incominciate, predilette Muse,
incominciate il canto pastorale”.
La natura partecipa al dolore del suo Dafni, malato d’amore:
Gli sciacalli ulularono per lui,
per lui i lupi, per lui, per la sua morte
pianse il leone dentro la boscaglia.
Incominciate, predilette Muse,
incominciate il canto pastorale.
Molte mucche ai tuoi piedi e molti tori,
molte manze gemettero e vitelle.
Incominciate, predilette Muse,
incominciate il canto pastorale”.

La poesia risolleva l’animo distrutto dall’amore respinto, dando voce alla complessità delle sue sfumature. In Teocrito, tuttavia, non mancano l’ironia e un garbato distacco verso le passioni che affliggono i protagonisti:

Ah, che tipo infelice nell’amore
oltre misura e imbambolato sei!
Ti dicevi bovaro ed ora sembri
un perfetto capraio: si strugge gli occhi,
quando vede la monta delle capre,
il capraio, perché non è caprone.
Incominciate, predilette Muse,
incominciate il canto pastorale.
E tu ti struggi gli occhi quando vedi
come splende il sorriso delle vergini
perché non sei a danzare in mezzo a loro“.

La pratica delle gare poetiche è da sempre presente nel mondo pastorale. Per questo alcuni studiosi ritengono che Teocrito non abbia fatto altro che trasporre nella sua sensibilità letteraria un fenomeno preesistente di origine popolare. Nella figura del pastore-poeta, tuttavia, nonostante le descrizioni sottili, non bisogna scorgere un intento realista, ma una realtà trasfigurata, un’occasione evasiva destinata a un pubblico colto cittadino.

Incisione con busto immaginario di Teocrito – Wikipedia

Virgilio e l’Arcadia

Nel mondo romano fu nientemeno che Virgilio a raccogliere il testimone di Teocrito. Il poeta latino, scosso dai tumulti delle guerre civili, andava ricercando un luogo lontano, indefinito, attraverso cui rivivere il sogno dell’armonia perduta, un locus amoenus in cui trovare rifugio. Lo trovò nell’Arcadia, regione greca in realtà aspra e inospitale, ma patria del dio Pan e dei pastori suoi seguaci. Nelle Bucoliche [2] i nomi dei personaggi continuano ad essere greci, tuttavia alle orecchie dei latini dovevano suonare come echi di terre esotiche, lontane e mitiche.

Mentre Teocrito descrive i pastori e le loro passioni con gentilizio distacco, in Virgilio riscontriamo una grande serietà. Sì, perché nei versi del poeta latino si allungano le ombre della Roma del suo tempo. Melibeo non canta le sofferenze d’amore, ma lamenta l’esilio imminente dalle sue amate montagne. È un evidente rimando alle confische e alle redistribuzioni di terre ai veterani delle guerre civili: lo stesso Virgilio fu vittima di questi tumulti e rischiò di perdere le sue proprietà nel mantovano, a seguito della Battaglia di Filippi. Nelle parole di Melibeo traspare dunque il sentimento malinconico del poeta:

Titiro, sicuro tu giaci qui sotto i rami
Larghi del faggio e componi un canto silvestre
Col flauto sottile; e noi queste dolci campagne
Lasciamo, in fuga noi dalla patria. Tu, Titiro,
tranquillo nell’ombra insegni alle selve
a ripetere il nome della bella Amarillide”.

Rappresentazione di Virgilio del III secolo d.C. (Monnus-Mosaic, Rheinisches Landesmuseum, Treviri) – Wikipedia

In un presente caotico e violento, l’unico rifugio sembra essere la vita del pastore arcadico, sottratto alle logiche del quotidiano e alle sue incombenze, baluardo ideale di un mondo ormai perduto di amore e di canti:

“O Melibeo, un dio questa pace mi ha dato.
Lui certo un dio sarà sempre per me; e spesso
Trarrò dal mio ovile teneri agnelli
Per bagnare la sua ara di sangue.
Mi disse che bene i miei bovi potevano errare,
come vedi, al pascolo; e disse che pure potevo
canti al mio piacimento comporre sul càlamo”.

La figura del poeta pastore ha attraversato i secoli nella letteratura rinascimentale e arcadica e rimane ancora oggi impressa nell’immaginario popolare. Figure che costellano la storia dei mondi contadini della penisola italiana, fino agli albori del Novecento. Tra questi, Francesco Giuliani, pastore, poeta e scultore di Castel del Monte, di cui parleremo nel prossimo articolo.

Diego Renzi


[1] Si veda l’idillio XV, Le siracusane.

[2] Raccolta di dieci egloghe esametriche con trattazione e intonazione pastorali. Da Wikipedia.

Bibliografia:

Virgilio, Tutte le opere, Ezio Cetrangolo, SANSONI Editore

TEOCRITO E VIRGILIO PRECURSORI DELL’ARCADIA: http://enricia.altervista.org/Newton/Teocrito_Virgilio.pdf

LA LETTERATURA BUCOLICA:
https://www.academia.edu/6351837/_La_poesia_bucolica._Nota_introduttiva_in_Lo_Spazio_Letterario_di_Roma_antica_vol._VI_I_Testi._1_Poesia_a_cura_di_A._Fusi_A._Luceri_P._Parroni_G._Piras_Roma_Salerno_Editrice_2009_pp._603-8

Una vita per il gregge: musica, miti e artigianato

una vita per il gregge: musica artigianato
I pascoli di Campo Imperatore, alle pendici del Monte Prena
foto di Antonio Damiani

La figura del pastore

Bastone d’agrifoglio o d’olivo ricurvo, tunica di pelle di capra o pecora, borsa pastorale. Al massimo una pelle screziata di vitello di cerva per i giorni festivi. Umile dimora: un antro, un tugurio, al più una tenda. Cosi si presentava il pastore dell’antica Grecia. Un’immagine che ci arriva direttamente dai poemi di quell’epoca, che narravano la quotidianità dei mandriani. Una vita dedicata al gregge ma piena di varie attività che diedero vita a miti e leggende: dall’artigianato alla caccia, dalla poesia alla musica.

Analizziamo ancora il trattato di Adolfo Di Bérenger “Studii di archeologia forestale. Dell’antica storia e giurisprudenza forestale in Italia”, in particolare il IX capitolo. 

Già dall’antichità, le varie società pastorali dimostrarono buone pratiche e metodi del governo del bestiame. 

[…] le pecore, in generale, erano distinte in irsute (pecus hirsutum), e molli (p. molle). Irsute quelle che si lasciavano pascere nei boschi; molli l’altre pasturate nelle pianure, e specialmente intorno alle città, le quali si chiamavano anche pellitas, o tectas, ed altrimenti greche, o tarentine, perchè di razza proveniente dai monti della Grecia, dov’erano numerosissime, e perchè, oltre che lavarle tre volte all’anno, le si coprivano d’una pelle o tela, affinchè la lana si conservasse in esse morbida e netta. 

Il burro delle molli era considerato una vera prelibatezza. I Romani posponevano il loro latte all’olio ed allo strutto di maiale; i pastori sapevano che un formaggio grasso era assai ricercato, quindi fonte di elevato guadagno.

Pascoli vernali ed estivi

L’amministrazione dei pascoli era per lo più compito dello Stato o del Comune: vi erano pascoli comunali quanto pubblici, alcuni anche condivisi da più comuni. Il pastore pagava una tassa per ogni capo d’animale, che veniva registrato per non andare incontro a contravvenzioni. I pascoli erano divisi in estivi e invernali. 

Il pascolo vernale cominciava dalle calende di settembre, e durava fino alla fioritura del pero nei fondi asciutti. […] I pastori di armento grosso vernavano preferibilmente sulle erbose spiaggie del mare (buceta); quelli di pecore invece per l’interno delle campagne, i padroni delle quali si facevano pagare dai guardiani una determinata capitazione (pedaggio, o fida), e si riservavano la proprietà delle legne, ed il pegno sugli animali in caso di danno [1]

Nel mese di maggio i pastori spostavano le loro greggi verso i pascoli montani. La diversità ambientale offerta dalle varie regioni sia in Grecia che in Italia, favoriva gli spostamenti a seconda delle stagioni. 

Una volta sui monti, lo stile di vita del pastore cambiava radicalmente. Durante la loro permanenza in alta quota, incrementavano la loro produzione artigianale. Si dedicavano a creare oggetti di vita quotidiana, quali canestri, fiaschi e stuoie, che rivendevano o barattavano. Erano inoltre maestri nell’arte dell’intaglio del legno. Fabbricavano oggetti vari, fra cui Di Bérenger nel suo trattato, elenca le acridoteche, che sono, testualmente “piccole gabbie per grilli, che si vendevano ai cittadini, usati a tenerli sotto il letto, per goderne il trillo, dolce conciliatore del sonno”.

I Pastori e la musica

Le loro doti artigiane permettevano la realizzazione di svariati strumenti. Uno dei più comuni era la fistula, detto anche siringa o flauto di Pan, che poteva essere composto da tre canne, ma anche da sette, nove o più. Erano unite fra loro con “cera e spranghe metalliche”. Oltre a questo particolare strumento a fiato, venivano fabbricati strumenti a percussione come cembali e tamburi con la pelle degli animali, tibie e auli (strumenti a fiato, spesso ricavati dalle ossa degli animali) e cetre (strumenti a corda simili alla lira). 

Non è d’altronde a far meraviglia, che molti componimenti poetici dell’antichità sieno stati riputati opera di pastori, posta mente, che non solo la pastorizia era esercitata da uomini liberi, persuasi d’imitare in ciò gli stessi numi ed eroi, cui anzi attribuivano l’invenzione dei pastorali istrumenti di musica: ma più di tutto, che in fatto è la natura, che nell’aperto dei campi, sull’altezze dei monti, e nel grembo maestoso delle foreste, trae dal profondo del cuore e dalla bocca dell’uomo le voci quali che siensi della poesia e del canto; fatto di cui ognuno può essere testimonio a sè stesso.

È la natura stessa a esprimersi tramite i pastori. La vita che conducevano li portava verso un’armonia assoluta con l’ambiente, tanto da ispirarli nei loro canti e poemi. Il suono degli strumenti veniva utilizzato anche per allietare gli animali, che seguivano la melodia. A tal proposito, nel testo si fa anche riferimento al mito di Orfeo, che con la sua lira aveva il potere di rendere docili anche le bestie feroci. In particolare, nel mito, usa il suono celestiale del suo strumento per addormentare il cerbero durante la sua discesa agli inferi.

Tutto il movimento religioso dell’orfismo che si sviluppa nella regione greca della Tracia, attribuisce alla musica un ruolo fondamentale. Non a caso Pitagora fondò il suo ordine su questa dottrina, che si sviluppò sia in Grecia sia nel sud Italia. I loro studi, dimostrarono il sottile rapporto fra geometria, matematica e musica, riuscendo a definire quella che oggi conosciamo come scala pitagorica [2]

Questo dimostra come nelle culture antiche si abbia coscienza delle potenzialità della musica. Per questo i pastori ne facevano uso, anche per condurre il gregge. In Italia il mandriano era solito precedere il gregge suonando il corno per chiamarlo a raccolta, mentre in Grecia seguiva la mandria, facendosi precedere dalla guidajuola, un capo del bestiame che tutti gli altri seguivano. 


[1] Nei contratti di vendita del bestiame, venivano sempre aggiunte clausole di esenzioni di responsabilità da parte del venditore. Quando si presentavano ulteriori problematiche, si doveva portare la causa a Roma.
[2] si basa sulla progressione degli intervalli di quinta con trasposizione dei suoni acuti all’ottava di partenza. La scala musicale costruita secondo lo schema pitagorico è basata con rigore matematico sull’intervallo di quinta (rappresentato dal rapporto 3/2) e di ottava (rapporto 2/1). – Wikipedia

Bibliografia:

Studii di archeologia forestale. Dell’antica storia e giurisprudenza forestale in Italia” – Adolfo Di Bérenger

seguiteci su facebook per altri articoli e eventi https://www.facebook.com/frequenze.gransasso

CAMPO IMPERATORE, LA RICCHEZZA DELLA SOCIETÀ PASTORALE

Campo Imperatore, la ricchezza dei pastori
E. Canziani, “Pastore che suona la zampogna”, da E. Canziani, Attraverso gli Appennini e le terre degli Abruzzi. Paesaggi e vita paesana, Synapsi Edizioni, Sulmona 2014.

Nell’immaginario comune pensiamo la montagna come un luogo selvaggio, aspro, lontano dai clamori delle vicende umane. Ciò non vale per l’altopiano di Campo Imperatore: le sue dune e le sue praterie solitarie sono i testimoni di una storia secolare di lotte di potere, di interessi e conflitti di origine cittadina, sono la proiezione in altitudine dell’organizzazione sociale dell’antico contado aquilano[1].

Due versanti, due storie diverse e complementari: il Gran Sasso d’Italia, il massiccio più alto dell’Appennino, separa nella sua maestosità i due paesaggi dell’Abruzzo attuale, quello marino e quello montano. Si divide nel versante settentrionale teramano, caratterizzato nel corso dei secoli da un’economia prevalentemente agricola, e nel versante meridionale aquilano, costituito da altopiani ricchissimi di erbe da maggio ad agosto; qui prospera “un’erba sottilissima, ma non cresce più d’un dito, ma è foltissima et ingrassa le pecore assai”, come scrisse nel Cinquecento l’ingegnere militare Francesco De Marchi. Storicamente, lo sfruttamento umano dei pascoli condusse a conflitti di ogni genere, ma anche ad alleanze durature tra entità politiche confinanti e a delicati equilibri sociali[2].

Universitas intus et Univeristas extra

Le montagne abruzzesi, compreso l’altopiano di Campo Imperatore, furono protette e curate dalle popolazioni pedemontane locali, le stesse che concorsero nel Duecento alla fondazione della città di Aquila. Come è noto, infatti, gli abitanti dei castelli vennero ad abitare in città, mantenendo al suo interno il nome del castello di origine e costituendosi in universitas intus, cioè come popolazione “dentro” le mura; gli esterni, come si evince dalla documentazione archivistica, vennero a formare l’universitas extra, “fuori” le mura. La rendita delle risorse montane interessò nei secoli sia gli abitanti intus che extra, che costituivano il contado (con un’estensione, come riporta De Marchi, dalle diciotto alle venti miglia a partire da Aquila).

La neonata città diventò ben presto il cuore commerciale di questo territorio, che dall’esterno forniva i prodotti alimentari. La materia prima dei pascoli ovini transumanti veniva destinata in parte alla sviluppata manifattura locale, in parte all’esportazione. Nel Trecento, in particolare, i documenti testimoniano dell’esistenza di una ricca classe mercantile, che prendendo il controllo del settore dell’allevamento, diede vita ad una vera e propria proto-industria armentizia. Tali facoltosi mercanti divennero ben presto il nerbo della classe dirigente aquilana, entrando in società con i commercianti di altre regioni della penisola. Non aveva allora torto Jeronimo Pico Fonticulano, quando nel 1582, in “Breve descrittione di sette città illustri d’Italia”, parlando di Aquila scrisse: “Son qui novantadue montagne de cittadini, detti “monti d’oro”, per l’abbondanza dell’herbe et acque sorgenti, ove si pascono quantità de bestiame; cavandose un guadagno inestimabile[3]”.

Il Consilium Massariorum

Una così ingente ricchezza non poteva che scatenare conflitti tra le varie università, oltre a dare luogo ad oleati meccanismi di assegnazione dei pascoli e delle greggi. In città era il Consilium Massariorum, formato dai massari di tutte le università intus ed extra, il portavoce delle istanze dell’intero contado. Nel Quattrocento i documenti ci descrivono le modalità di gestione di terreni prativi, di selve e montagne: allevatori e agricoltori disponevano di tali risorse mediante una delega assegnata ai massari, e ricavavano i frutti degli erbaggi e dei prodotti delle aree comuni coltivate a grano, orzo e foraggi, a cui si sommava la vendita di ghiande e pomi.

Gli erbaggi e i pascoli potevano, inoltre, essere venduti a privati cittadini, a condizione che ratificassero di rivendere i diritti acquistati non appena richiesto dagli uomini dell’università[4]. Qualora si fosse trattato di un terreno boschivo, che necessitava di un preventivo dissodamento e disboscamento, l’affitto era decennale e l’affittuario era esonerato dal pagamento per un biennio. Sul massiccio del Gran Sasso, l’elevata presenza del bestiame costringeva le università del contado aquilano a stringere accordi con la feudalità confinante, per sfruttare maggiore erbaggio[5].

La guerra dei Pascoli

Tuttavia, come si diceva poc’anzi, la ricchezza porta conflitto. Già dal 1332, abbiamo notizia di liti per la delimitazione dei confini fra i castelli di Roio, Lucoli, Tornimparte, Paganica, Assergi, Preturo, Forcella, Vigio, Pizzoli, Gignano e Bazzano: “per le montagne erbate”, cioè per i pascoli, “et per la carfagnina”, cioè per la lana, come riporta il cronista Buccio di Ranallo[6]. Gli armenti erano spesso causa di ostilità e i padroni degli animali che recavano danni alla vegetazione confinante erano chiamati a presentarsi nientemeno che davanti al capitano regio, il rappresentante del re in città. Anche le fonti d’acqua, indispensabili per abbeverare il bestiame, portavano allo scontro con le feudalità confinanti, come testimonia la storica contrapposizione tra Navelli e Capestrano[7].

Tuttavia, le montagne erano anche sedi di trattati ufficiali. È il caso delle lotte di confine che interessarono per due secoli Barisciano e Carapelle, il primo rappresentato dal capitano della città di Aquila, il secondo dal Conte di Celano. Nel 1357 fu celebrato a Campo Imperatore un negoziato di pace e furono delimitati i confini. Tuttavia, la tregua durò poco e continuarono gli spargimenti di sangue, in quello che Buccio di Ranallo definì “lo male de Carapelle e anche de Barisciano”. Solo nel 1509 la guerra di confine tra le due università si vide conclusa, con l’ennesima convenzione, dopo decine di omicidi da entrambe le parti[8].

Diego Renzi


I paragrafo

[1] Le informazioni e le ricostruzioni di cui tratteremo in questo articolo sono prevalentemente tratte da “La montagna contesa. L’Abruzzo in età angioina e aragonese”, in M.R. Berardi, I monti d’oro, identità urbana e conflitti territoriali nella storia dell’Aquila medievale, Liguori Editore, Napoli 2005.
[2] Illustre è la pratica della Transumanza – a un tempo verticale e orizzontale – che collegava l’Abruzzo alle Puglie, le altitudini montane alle pianure del Tavoliere, che avremo modo di iniziare a conoscere nei prossimi articoli.
[3] Citato in M.R. Berardi, I monti d’oro, cit., p. 91.

II paragrafo

[4] “Si riporta come esempio la transazione conclusa dall’università di Chiarino con Stefano di Paolo di Marino di Pizzoli, il quale aveva acquistato ottantadue grani di territorio dell’università con la promessa di restituirlo dopo la sua morte allo stesso prezzo. Gli eredi di Stefano rivendono il territorio e restituiscono all’università i diritti che Stefano aveva sul territorio, sui pascoli e sulle erbe al prezzo di ducati centosettanta”. (M.R. Berardi, I monti d’oro, cit., p. 99).
[5] “Come testimonia la lettera inviata nella primavera del 1496 alla Camera Aquilana dal Duca d’Atri e Teramo e Marchese di Bitonto, Matteo Aquaviva d’Aragona, il quale rinnovava la sua disponibilità in lo pascere de loro bestiame quella comodità è stata possibile; nel versante teramano, nei suoi possedimenti, gli uomini dell’università di Assergi portavano e porteranno – per lo passato et per lo avvenire – a pascolare gli armenti nel periodo estivo”. (Ibidem, p. 105).

III paragrafo

[6] De Bartolomeis, Cronaca Aquilana, pp. 83-85, citato in ibidem, p. 97.
[7] “L’8 agosto 1498 la duchessa d’Amalfi, Giovanna, inviò una lettera alla magistratura aquilana comunicando di aver imprigionato alcuni uomini dell’università di Navelli, i quali, contro ogni ragione, portavano a pascolare gli animali nei suoi territori di Capestrano e soprattutto venivano ad beverare in lo fiume quale sta in mezzo el core de nostro stato”. (Ibidem, p. 109).
[8] R. Giannangeli, Terra di Barisciano, Japadre Editore L’Aquila 1974, pp. 44-45.

Seguiteci sulla nostra pagina facebook per altre curiosità su Campo Imperatore: https://www.facebook.com/frequenze.gransasso

Santa Caterina, dalle sabbie d’Egitto ai monti abruzzesi

Se a Santa Caterina vendi una mucca puoi sposarti, altrimenti la festa è rimandata. Senza soldi, niente matrimonio. Era questo il tenore di una delle feste più radicate nella cultura di Barisciano, sin da quando, di ritorno dalla Prima Crociata (1095-1099), alcuni compaesani riferirono entusiasti della vita miracolosa di Santa Caterina d’Alessandria.
Ancora oggi sul Sinai si staglia il monastero, patrimonio dell’Unesco, a lei consacrato. Dopo il martirio infatti, secondo la leggenda, alcuni angeli trasportarono le spoglie di Caterina sul monte sacro. Secondo la tradizione popolare, il latte che sarebbe sgorgato dal collo della Santa dopo la decapitazione nutre e protegge gli allevatori dell’altopiano delle Locce, di Chiusola e del lago di Passaneta, tra i luoghi simbolo dell’allevamento locale.


Santa Caterina, il 25 novembre, era più di una festa religiosa: era il giorno in cui si poteva saldare il conto con il fabbro e con il bottegaio. Era il giorno in cui si decidevano i matrimoni. Gli sposi fortunati compravano tutto nella fiera del paese: stoviglie, conche di rame, lenzuola, indumenti tessuti a mano. Nelle camp’tèlle, l’attuale Villa Comunale, le famiglie di Barisciano andavano con la speranza di vendere una pecora o un agnello e racimolare un po’ di soldi per l’inverno alle porte. Si vendeva anche il raccolto dei mandorli, di cui ciascuno si prendeva cura nei vari appezzamenti coltivati.
Ma ciò che portava un maggior guadagno era senz’altro lo zafferano, di cui Barisciano era un grande produttore. Si poteva arrivare anche ad un chilo per famiglia e chiunque aveva dei terreni riservava uno spazio per impiantare il bulbo, a rotazione stagionale, perché i guadagni erano floridi. In occasione della fiera, i negozianti da tutto il circondario giungevano in paese per partecipare all’asta nella Piazza del Mercato, che ne avrebbe poi fissato il prezzo.
Santa Caterina è, dopo San Flaviano, la santa protettrice del paese. Da queste piccole pennellate di ricordi emerge l’importanza della ricorrenza nella vita comunitaria di Barisciano, che non si fermava alla dimensione religiosa, ma coinvolgeva la vita economica e sociale.
Ma Santa Caterina era anche una festa. Era l’occasione per mangiare la porchetta, per comprare le castagne e i cachi, prodotti evidentemente troppo costosi per la vita di tutti i giorni. Un anziano di Barisciano ricorda gli uomini che, calata la sera, si incontravano tutti al bar di Nandino, col cappotto a ruota e qualche fiasco di vino caldo con le bucce d’arancia. Le feste si rispettavano, come la domenica. Guai non andare a messa o lavorare quando era festa: si rischiavano le maledizioni. Non che ci fossero pantaloni da festa, o scarpe. Le uniche che si avevano erano di cartone, fatte su misura dal calzolaio e con una suola di chiodi, pesantissime e dure. Per renderle più carine, si dipingevano con lo strutto di maiale, che dava un colore più scuro ed elegante.
Oggi la fiera di Santa Caterina ha perso la valenza che storicamente ha avuto per il paese, legata ad un preciso contesto sociale e religioso. Nonostante tutto, i bambini aspettano questo giorno per gironzolare tra le bancarelle e comprare pistole a giocattolo e caramelle gommose. I loro nonni camminano ancora tra le strade del paese ripensando ai cappotti a ruota e alle bucce d’arancia nel vino caldo.

Diego Renzi

Bibliografia

Mingroni G., Feneziani E., Santa Caterina e la fiera di Barisciano, Pro Loco Barisciano

Bulsei L., Cultura di Barisciano


Racconti degli anziani

La Cabina: storia di un ristorante nel segno dello zafferano

Il nome deriva da una cabina elettrica che nei primi anni del ‘900 forniva l’elettricità a tutti gli abitanti del paese di Castelnuovo. Era allora una locanda, luogo di ristoro e d’incontro, per chi si recava al mulino ad essa annesso per macinare il grano e per i viandanti che percorrevano la Strada Statale 17. Negli anni ’80 si è trasformata in un bar dove era possibile degustare salumi e formaggi locali e un buon bicchiere di vino. Mostrando sempre molta attenzione alla genuinità dei prodotti, nel 1990 nasce il Ristorante La Cabina. Lo chef Nello comprende subito l’eccellenza e il valore culinario del territorio con lo zafferano e incomincia a sperimentare, attraverso una cucina tradizionale e semplice, primi e secondi piatti a base della preziosa spezia. Non solo, quindi, risotto alla milanese. Elaborando, negli anni, nuove pietanze,  sempre nel rispetto della tradizione ma con tecniche innovative, ha partecipato a diversi eventi e manifestazioni culinarie per far conoscere e promuovere l’oro rosso d’Abruzzo.

Oltre che per la cucina dei prodotti tipici, tra cui spicca anche il tartufo, La Cabina è famosa da sempre per le sue cene a suon di blues. Artisti internazionali si sono esibiti nel corso degli anni nel locale, alimentandone la fama. Se siete appassionati di musica e amate la buona cucina, allora le serate musicali offerte dal ristorante fanno proprio al caso vostro!

Zafferano, una ricetta da pittori

Reccipe uno poco de zafarani e uno poco de biacchia e stempera insieme con aqua gomata et la lassa cusì stare, a ciò se incorpora, per una mez’hora, e serà fatto”, si legge in un antico codice del XV secolo, conservato nella Biblioteca dell’Università di Bologna. Il volgare antico non spaventi: è una semplice ricetta a base di zafferano. Fin qui niente di strano. Se non fosse che il pubblico ideale a cui si rivolge la ricetta in questione è quello dei pittori: “A fare collore giallo per fiorire in oro in carta”.

Lo zafferano, conosciuto sin dall’antichità, era utilizzato innanzitutto come un efficace colorante. Il giallo luminoso, ottenuto dalla mescolanza della spezia preziosa con della chiara d’uovo, rientra in quella miriade di tinte antiche che pittori e affreschisti tramandavano ai loro allievi più talentuosi, di generazione in generazione, fino all’avvento della Rivoluzione Industriale.

Nel 1864 il chimico Eugene Chevreul ne stilò un catalogo, che dovette costargli una gran fatica: arrivò a contare 14.400 tonalità cromatiche. Tonalità che la chimica industriale contemporanea a Chevreul non poteva e non avrebbe mai potuto riprodurre. Neanche oggi la sintesi chimica, pur con una corretta miscela di colori, riesce ad ottenere le raffinate tonalità cromatiche artigianali.

Il vantaggio del colore sintetico è tuttavia il minore dispendio di tempo. Per creare un colore naturale, come si legge nel codice quattrocentesco, potevano volerci addirittura mesi. I procedimenti erano i più strambi e disparati: si utilizzavano urina ed escrementi, mescolati a sostanze vegetali e minerali e sottoposti alle più svariate lavorazioni. Gli artisti della seconda metà dell’Ottocento, soprattutto coloro che prediligevano la ricerca pittorica en plein air, abbandonarono le tecniche tradizionali, a favore di una più funzionale immediatezza.

L’uso dello zafferano in pittura attraversa i miti ed i racconti orali dei paesini abruzzesi. Ancora oggi a Civitaretenga, sull’altare di una umile chiesa, campeggia una delicata Madonna con Bambino, dall’inconfondibile aureola dorata. Fu un pastore napoletano a dipingerla, dopo averla vista in sogno nella stalla di una osteria. Il pover’uomo, non avendo colori a disposizione, utilizzò lo zafferano presente in cucina e altre tinte naturali. Nel 1698 quell’osteria fu trasformata nella Chiesa della Madonna dell’Arco.

Diego Renzi

Vergine dello zafferano, Chiesa della Madonna dell’Arco, Civitaretenga

fonti:
https://archive.org/details/illibrodeicolor00riccgoog/page/n10
https://www.stilearte.it/abracadabra-sterco-di-cane-e-cerume-per-il-buon-colore/

Remy, il topolino chef che fece conoscere lo zafferano aquilano nel mondo!

“Aah zafferano dell’Aquila, italiano eh. Gusteau dice che è eccellente!” Tutti noi quando abbiamo sentito questa frase siamo letteralmente sobbalzati dalla poltrona. Chi l’ ha pronunciata? Un topolino. Si chiama Remy, vive a Parigi e sogna di diventare chef. No, non è uno scherzo è tutto vero. Remy è il protagonista di Ratatouille, film animato prodotto dalla Disney Pixar.

Durante il film, Remy intento a rovistare nella dispensa di una vecchietta dal sonno pesante, assieme al paffuto e impaurito fratello Emile, trova l’ agognato bottino di zafferano. Da qui l’ormai celeberrima frase. Ratatouille con Remy ci insegna che se hai un sogno e hai le qualità, vale la pena coltivarlo a prescindere se hai o meno le possibilità per intraprenderlo.

L’Aquila nel film della Pixar? Ma come è possibile? Si potrebbe pensare che sia stato un omaggio da parte del doppiaggio italiano nei confronti della città natia dell’oro rosso. E invece no. Remy quella battuta l’ha pronuncia anche nel doppiaggio originale, quindi vuol dire  che tutto il mondo ha avuto modo di conoscere lo “zafferano dell’Aquila.” E allora si ripropone la domanda: come è possibile?

Come raccontato dall’articolo di Virtù Quotidiane, Jim Morris produttore cinematografico venne a L’Aquila a cenare con il direttore dell’Accademia dell’Immagine di L’Aquila Gabriele Lucci. I due erano amici di lunga data e Lucci durante le festività natalizie era solito a regalare a Morris i prodotti tipici del nostro territorio. Durante la cena in una trattoria della città, Morris mostrò interesse verso la cucina aquilana, in particolare allo zafferano. Da lì il lampo di genio, anzi “fulminoso” come direbbe Remy.

Pochi mesi dopo infatti, Morris incominciò a lavorae come produttore esecutivo nella Pixar, proprio progettando Ratatouille. Dopo quella cena, tutti ne giovarono: il topolino chef ebbe un successo planetario, Morris con gli anni divenne presidente della Pixar e l’ oro rosso aquilano fu (è proprio il caso di dirlo), sulla bocca di tutti.

Pierluigi Trombetta

fonti: https://www.virtuquotidiane.it/cultura/ratatouille-il-topolino-lo-zafferano-e-quella-cena-allaquila-con-il-re-della-pixar.html