Da sinistra, Stefano Ardito e Vito Plumari.
Fonte foto: STEFANO ARDITO. Storia dell’Alpinismo in Abruzzo. Edizioni Ricerche&Redazioni (2014)
Di sicuro le vette del Gran Sasso D’ Italia in ogni stagione alpinistica richiamano centinaia e migliaia di appassionati da ogni parte d’ Europa, vogliosi di scalare la cima più grande degli Appennini. In passato vi fù anche un curioso dilemma su quale fosse l’ effettiva altezza del Corno grande. 2912 sono i suoi metri, anche se in passato qualche libro di geografia birichino lo alzava di 2 centimetri. Così come nel calcio, anche la montagna vede un rapporto speciale tra L’Aquila e Bologna. I colori della società calcistica rimandano alla gloriosa compagine felsinea (ma questa è un’ altra storia…), mentre il primo scalatore ufficiale del Corno Grande è appunto un bolognese: Francesco De Marchi. Alpinista, Speleologo e Ingegnere (in epoca rinascimentale si faceva un po’ di tutto), che scalò la vetta più grande del Gran Sasso nel 1576.
Da un Corno Grande a uno Piccolo
Piccolo si, ma più complesso. Il Corno Piccolo ( quinta vetta del Gran Sasso) affascina scalatori e arrampicatori per le sue pareti di liscio calcare che offrono linee di salita, che stando al parere di esperti e non, sono tre le più belle al mondo. E intorno agli anni ’70 la storia del Gran Sasso si incrocia con quella di due grandi alpinisti: Pierluigi Bini e Vito Plumari. Il rivoluzionario solitario da una parte e il vecchiaccio dall’ altro. Vecchiaccio, proprio come la via della parete ovest della seconda spalla. Uno dei sentieri più famosi e frequentati. Aperta da Bini, Plumari e Massimo Marcheggiani, la via segue delle bellissime fessure e nell’ abitudine dei ripetitori, supera una placca attrezzata a chiodi a pressione, mentre l’ originale passa più a sinistra e ha un passo piuttosto difficile. La via ha un tratto di VI gradi nella placca dell’Aquilotti 72 per poi viaggiare sul V grado.
Bini
Un ragazzo di borgata, della Roma verace e che in primo piano da ragazzino preferisce mettere l’ alpinismo piuttosto che il calcio. E la sua carriera gli darà ragione. Nella sua epoca il vero alpinismo lo si faceva solo in Himalaya e nelle Alpi e gli unici alpinisti conosciuti erano Compagnoni, Lacedelli e il mitico Bonatti, autori della scalata del K2. Un rivoluzionario solitario, si potrebbe definire Bini in sole due parole. Prima si cimenta in calate usando per lanciarsi corde da cantiere. Poi inizia a sperimentarsi nelle arrampicate, arrampicandosi su tutto ciò che a Roma fosse arrampicabile: tubi del gas, scarpate, alberi e ponteggi. Il padre era preoccupato, perché il figlio era fissato con le corde e arrampicandosi sotto i ponti non andava più a scuola. Chiese consiglio ad un amico che lo indirizzò al Cai: “Così gli insegnano qualcosa, altrimenti s’ ammazza, e poi vedrai che gli passa.” E invece no. Bini e la ricchezza si trovavano in due mondi paralleli, ma quando hai talento e passione da vendere allora i soldi contano fino ad un certo punto. Fa capire al mondo intero che pur non essendo valdostano o tirolese, può applicare tranquillamente le leggi di Messner su l’ arrampicata libera. Si contraddistingueva dagli altri nel concatenare molte solitarie (ci risiamo), alternando salite a discese. Pierluigi è un rivoluzionario, e quindi anche un radicale. Ma è anche una persona semplice e modesta che poteva scalare sia con un grande alpinista, sia con un dilettante della montagna.
Il Vecchiaccio
E quando il rivoluzionario incontra il Vecchiaccio, allora la trama inizia a farsi consistente. Tale Vito Plumari: siciliano di nascita, alpinista per passione, bidello di scuola per professione. Heinz Maracher definì Plumari come “l’ unico vero alpinista, quello che arrampica per se stesso solamente, uno sciamano alla stregua del Don Juan dei libri di Castaneda.” Come raccontato dallo stesso Bini, la collaborazione era nata perché serviva una macchina, e il Vecchiaccio a differenza del gruppetto di ragazzini ne aveva una. Poi nacque una stretta e affettuosa amicizia che durerà per 20 anni. Il rivoluzionario solitario e il Vecchiaccio, due figure tanto diverse ma con un punto in comune: l’ avventura.
Nel 1977, la cordata Bini, Marchegiani e Plumari aprono la via del Vecchiaccio, ma nell’ ultimo e duro tratto ripiegarono per i chiodi a pressione della vicina Aquilotti ’72, evitando una liscia e improteggibile placca di calcare compatto. Successivamente lo stesso fuoriclasse romano, insieme a Raffaele Bernardi, salì anche il tiro più difficile, realizzando la via più dura del Gran Sasso. La rivoluzione sta nel fatto che gli spit e i chiodi non venivano utilizzati per le salite delle placche. Niente di più rischioso, perché tra un protezione e l’ altra bisognava proseguire molti metri senza protezioni. Rischio che il rivoluzionario di borgata ha commesso ed è stato ben ripagato.
Fonti: Gogna blog, Storia dell’ alpinismo, Abruzzo verticale.
Pierluigi Trombetta